Resa dei conti con la legge elettorale. Nota a sentenza

Primarie sì, primarie no. Congresso sì, congresso no. Chi ha attitudini alla rottamazione rischia di essere rottamato pure lui. Chi ha attitudini a dirigere rischia di passare al ruolo di subalterno. Scissione sì, scissione no. Ignorare il vecchio big passato di moda sì, ignorarlo no. Prima del voto una legge per l’elezione del Senato sì,  una legge no. Elezioni subito sì, elezioni subito no.

Alleanza con quelli sì, alleanza con quelli no. Premio non alla lista ma alla coalizione sì, premio no. Chi veniva guardato tra i poteri forti lamenta l’esistenza di poteri forti. Si parla sempre di «programma unitario», ma le spaccature rimangono, e sono scintille nelle faide interne. Da una parte le nuove reclute si fanno avanti per cogliere il frutto referendario. Dall’altra parte il fedele di turno portato alla ribalta dal dominus si schiera con i grossi calibri rimasti all’oscuro, per lungo tempo snobbati dallo stesso dominus, ma questi grossi calibri hanno un occhio alla loro nuova frontiera e l’altro occhio rivolto al dominus, che sembra voler percorrere un’altra strada.

Dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità del c.d. Porcellum nel 2014 (c.d Consultellum di modifica), la Corte costituzionale con sentenza n.35 del 2017 si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale della legge n. 52 del 2015 (c.d. Italicum), sollevate da cinque Tribunali ordinari. Il «premio di governabilità» è costituzionale, ma il ballottaggio è incostituzionale. Tale premio scatta solo con il 40 per cento dei voti: in mancanza i seggi saranno assegnati in modo proporzionale. A questo premio con l’Italicum si poteva accedere anche con un consenso esiguo al primo turno, ma questo porterebbe, ha detto la Corte, ad una «sproporzionata divaricazione» tra la composizione della Camera e la «volontà dei cittadini espressa con il voto». La stabilità del Governo è «di sicuro interesse nazionale», ma «non può giustificare uno sproporzionato sacrificio dei principi costituzionali di rappresentatività e di uguaglianza del voto». È costituzionale il sistema delle candidature multiple, ma non la possibilità, in caso di elezione in più di un collegio, della scelta del collegio da parte dell’eletto perché così si affida all’eletto «il destino del voto di preferenza espresso dall’elettore, determinando una distorsione del suo esito», dovendosi procedere, in questo caso, al sorteggio. Non sono bloccate le liste (il blocco, previsto nel Porcellum, era illegittimo), ma è costituzionale il blocco dei capilista, che perciò saranno i primi ad ottenere un seggio, mentre dal secondo eletto in poi valgono le preferenze (in tal senso la modifica del Porcellum): così i partiti più piccoli, se non riusciranno ad eleggere più di un parlamentare, avranno eletti solo i capilista. Circa le soglie di sbarramento previste dall’Italicum nella distribuzione dei seggi su base nazionale resta l’accesso al riparto solo da parte delle liste che avranno superato la soglia del 3 per cento.

Con la sentenza n.35 siamo alla resa dei conti. Una valanga imprevista precipita sul quadro esistente e ne scuote le fondamenta. Sono come scosse telluriche e c’è un fermento generale. Tutti si guardano intorno. Si fanno interviste a destra e a manca e si fanno proclamazioni a catena con botte e risposte. Si accusa chi ricopre un’importante carica istituzionale non statale di trascurare il territorio di sua competenza, in quanto impegnato a crearsi i presupposti necessari per la ribalta nazionale cui aspira, e si citano cifre e statistiche del malgoverno. Cifre e statistiche estese a chi, da una parte e dall’altra, è stato al Governo nazionale. Sul quadro messo a punto dai partiti politici sono disseminati i «movimenti», con nuove denominazioni, e a tal fine si indicono convegni, anche «fondativi». Bisogna vedere fino a che punto il neonato si richiama al ventre materno da cui è uscito. Anche in campo alleato si sta sul chi vive e ci si guarda con sospetto reciproco. Nella base popolare sorgono domande da anni e decenni su diversi fronti. Abbassate le tasse? Combattuta efficacemente l’evasione fiscale? Fatta perequazione e riordino sociale? Eliminati gli sprechi? Ridotto il debito pubblico? Facilitata la crescita economica? Creata l’occupazione? Parole, parole, si diceva nella vecchia canzone. Passettini, magari, ma i risultati non sono stati entusiasmanti né da una parte né dall’altra. Si sono visti e si vedono sfornare provvedimenti efficaci, si dice, cioè più efficaci dei precedenti: perché non sono stati adottati prima, questi provvedimenti «più efficaci»? Eppure in mezzo ai tanti professionisti ci sono state sempre persone prese da impegno disinteressato da una parte e dall’altra, si pensa.  Come si spiega? Un buon Governo richiede compattezza di intenti e stabilità interna, oltreché di governo, ma, in mancanza, può ugualmente sopravvivere a lungo. I motivi sono da ricercarsi nei condizionamenti e nei giochi di potere a catena conseguenti alla rete di lobbies di cui è lastricata l’Italia, e si crea, all’interno dei partiti, uno sfaldamento sistematico. Il resto lo fanno gli apparati burocratici deputati all’attuazione delle norme, quando in qualche modo queste ci sono, e ai controlli. In questo ordine di idee popolare è abortito, prima di nascere, ogni intento, sulla scia inglese o americana, di sano bipolarismo. È spuntato il terzo incomodo, nato dal disgusto diffuso espresso da quanti sono andati a votare, avendo altri continuato ad esprimersi con l’astensione. Peggio di così non potrebbe essere, si è pensato, proviamo con quest’altro soggetto (diventato, poi, una spina nel fianco degli altri).

Due componenti caratterizzano, spesso oltre certi limiti, l’uomo politico, connessi tra loro: il protagonismo e la sete di potere, che è sete di poltrone. Questo spiega perché anche in un sistema democratico può capitare che la maggioranza politica, espressa dai cittadini che chiedono di essere rappresentati, non li rappresenti affatto. E spiega pure perché da parte dell’opposizione  si considerano quelli della maggioranza «nemici» quando si fa opposizione non costruttiva, ma aprioristicamente ostile. Così stando le cose, sono proliferati partiti e «movimenti» e le alleanze che si renderebbero necessarie per raggiungere la soglia del 40 per cento indicata dalla Consulta diventano un problema. L’importante, intanto, è entrare nel quadro parlamentare, dicono i piccoli partiti o movimenti, per le alleanze, poi, al fine di entrare nel governo, si vedrà. Così, però, si ritorna indietro, al  tempo del sistema proporzionale, ma questo sistema, ahimè, rema contro la stabilità perché i Governi non hanno vita lunga. Il tentativo di Governi più stabili con il bipolarismo è sfumato. Non torniamo alla Prima Repubblica, si diceva, ma al momento ci ritroviamo tra le mani una legge che indirizza a questo ritorno per i rischi connessi all’assetto partitico. Ora la sentenza della Consulta mette uno specchio di fronte ai politici. Si continua a guardare alla leadership a scapito della governabilità, si propone la propria «svolta», e le etichette si vedono spuntare dall’oggi al domani. Fermenti, questi, normali in circostanze, più o meno accettabili, di vivibilità democratica, ma che nell’attuale momento appaiono cosa forse mai vista prima. L’ incertezza politica ora comincia a fare paura, con il grave problema della governabilità, in un quadro di condizioni finanziarie non propriamente floride e di crisi che non fa decollare l’economia, oscurando ancora di più la credibilità del Paese all’estero, come già si era visto con il freno agli investimenti. Con questa sentenza il frutto maturato nel tempo si ritorce, come un boomerang, contro la classe politica, che pure sconta concretamente la crisi dei partiti, già in atto da tempo.

I condizionamenti e i giochi di potere hanno generato interventi approssimativi e  compromessi e per il resto c’è stata l’abitudine dei rinvii sugli argomenti per i quali ognuno ha tirato acqua al proprio mulino con il frutto dell’omissione di determinazioni normative necessarie per l’assestamento istituzionale. Un fenomeno, questo, che non fa onore all’Italia. La magistratura, preposta al vaglio di legittimità degli interventi, svolge il suo ruolo, ma giocoforza va al di là per assumere una funzione attiva di guida della politica, e cioè del potere legislativo, se di potere legislativo si può parlare secondo il principio di divisione dei poteri propugnato da Montesquieu, visti gli scantonamenti patologici. E la sentenza della Consulta rappresenta una tappa storica di questa funzione attiva in sostituzione dell’azione politica dei Governi in carica perché non si limita alla considerazione della legittimità del sistema Italicum, ma assume un ruolo di impulso con l’invito all’adozione di interventi per i quali finora c’è stata latitanza, per conciliare stabilità e rappresentatività popolare. Gli ermellini non hanno detto soltanto: «Questo non va bene», ma anche: «La classe politica, tramite la sede parlamentare, deve fare questo». Basta con le leggi fatte su misura, come quando uno va al sarto e si fa cucire un vestito su misura. Ora bisogna cucire un vestito nazionale al Paese, e si auspica per il meglio:

1) È possibile, dice la Corte, avere due leggi per scegliere deputati e senatori in modo diverso, ma la Costituzione «esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee». Un monito, questo, a chi ha fretta di andare alle urne: senza un’altra legge si avrebbe, grazie al premio, una larga maggioranza alla Camera, o una Camera molto frammentata, se nessuna lista arrivasse al 40 per cento, mentre si avrebbe, comunque, il Senato frammentato;

2) I politici che si aspettavano che la Corte cavasse le castagne dal fuoco a vasto raggio, tirando a campare, sono rimasti con un pugno di mosche in mano. La Corte ha ribadito di non poter modificare «tramite interventi manipolativi o additivi, le concrete modalità attraverso le quali il premio viene assegnato all’esito del ballottaggio». Si richiede che il Parlamento si dia una mossa, intervenendo con l’uso – corretto – della sua discrezionalità;

3) A proposito delle candidature multiple e della possibilità di elezioni in più di un collegio, nel qual caso si ricorre al sorteggio, il sorteggio, di per sé, è un buon criterio in un sistema democratico, già esperimentato fin dai tempi dell’antica Grecia, ma nella fattispecie non è l’eccellenza: la Corte osserva che spetta al legislatore «sostituire tale criterio con altra regola più adeguata, rispettosa della volontà degli elettori»;

4) Circa la conferma dei capilista bloccati si è dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Se la cosa toglie spazio agli elettori, la Corte ha inteso riconoscere in qualche modo il ruolo dei partiti secondo lo spirito dell’art. 49 della Costituzione, ma ciò non esclude un altro monito che si legge tra le righe: è chiaro l’invito ai politici di scegliere persone degne nella classe dirigente, dopo che i due referendum degli anni ’90 hanno ridotto, prima, e sostituito, poi, le preferenze con i collegi uninominali.