lamiaterra: la purpara e la mobilità sociale

E poi c’erano i figli dei pescatori. Andavano in barca per dare una mano ai propri genitori, a volte anche per spirito di avventura, spesso per racimolare un guadagno in funzione degli studi, per contribuire alle spese scolastiche, tasse, libri, abbonamenti per i trasporti, affitti e alloggi per soggiornare presso le università italiane. Dal mare imparavano che fare il pescatore era un mestiere troppo duro, dal mare imperavano che dalla costa, a colpi di remi, ci si poteva allontanare, prendendo il largo, migliorando la traversata della vita. Il largo era rappresentato spesso dall’acquisizione di un titolo di studio, di una posizione economica più agiata, da uno scatto sociale insomma che potesse ripagare tutti i sudori spesi a bordo della barca, partendo da zero, come si dice oggi, ossia da quel segmento sociale che è rappresentato dai figli degli operai, dalle famiglie di umili origini, non avvantaggiate dall’eredità di titoli e privilegi, in questo caso dagli operai del mare.
Quando l’estate era alle porte, le famiglie dei pescatori cominciavano ad organizzare la vita estiva, che poi era il periodo più intenso di lavoro e il più faticoso del calendario perché il tempo buono favoriva un numero maggiore di uscite in barca, e quindi la possibilità di un guadagno più congruo alle esigenze.
I figli dei pescatori, dopo la fine dell’anno scolastico, lasciati i banchi, libri e quaderni, cominciavano a frequentare la scuola del mare, si svegliavano molto presto per poter salpare dal molo, ognuno con la propria barca, sudore con sudore, figli e padri. Era ancora notte fonda quando le finestre delle case dei pescatori si accendevano e i vicoli di Santa Maria al Bagno si popolavano dei loro passi, riecheggiavano delle loro parole, si coloravano di esche, profumavano di filazzuli e dei rivoli del primo caffè, tintinnavano di ancore, ami, spineddhe, cuenzi, calari, spaghi, ceste. A Santa Maria alcuni pescatori, più che la pesca con le reti, praticavano in modo più specifico la pesca ti li purpi, tecnica che avevano imparato fin da ragazzini quando, al seguito dei pescatori più anziani, avevano cominciato a rimboccarsi le maniche per poter vivere, scalzi e infreddoliti di tramontana, senza pane e senza coperte. Erano i tempi in cui, per placare la fame, si assalivano gli alberi ti fiche, mendule, ficatindie e si dormiva per terra intra alli furnieddhi.
Per andare a pesca di purpi era necessaria la purpara, una lunga lenza, fornita all’estremità da un grosso piombo. Quest’ultimo veniva preparato con pezzi di piombo rimasti, spizzatore, frammenti che i pescatori di purpi raccoglievano dalle reti in disuso e che facevano sciogliere, e poi solidificare, in un cono di carta robusta. Quando il piombo era pronto, ma ancora un po’ morbido, i pescatori praticavano un foro, martello e grosso chiodo, sull’estremità del piombo, apertura attraverso la quale infilavano poi il filo da pesca. Così capitava che le case dei pescatori somigliavano a volte ad officine di fabbri maestri, colpi tenaci di martello rimbombavano sugli usci e l’odore del piombo si infilava trafelato tra le bande di bucato steso al vento.
La parte più interessante della purpara era però l’esca, spesso nu pete di jaddhina che li purpaluri, su previdente ordinazione, prendevano dal macellaio, fresco ogni mattina perché lu purpu doveva abboccare allu pete senza ripensamenti, e se ripensamenti c’erano, la spineddha sarebbe stata subito lì pronta, accanto alla purpara, a facilitare la cattura di tutto quel ben di dio di tentacoli. Anche i figli dei pescatori di purpi andavano al mare e aiutavano i propri padri a vendere il pescato, squisito boccone per paesani e forestieri, quando sarebbe diventato purpu a pignatu, purpu tuttu paru, purpu frittu, nsalata ti purpu, purpu arricciato e mozzicato crudo nelle parti più tenere, sotto i denti, purpette ti purpu, purpu e patate, purpu rrustutu. Il profumo di queste pietanze si affacciava sugli usci delle case e prendeva il volo, inondando il lungomare, le rotonde, la piazzetta, si aggirava tra gli alberi, si stendeva sui marciapiedi, si arrampicava sugli scogli. Lu purpu, con il pane inzuppato nel sughetto, rappresentava una prelibatezza di rara bontà sulle tavole delle famiglie dei pescatori, dove spesso, per le difficoltà economiche, lo si cucinava evitando di venderlo.
La purpara sembrava facile da gestire, ma non lo era, richiedeva numerose virtù: pazienza, coraggio, lungimiranza e capacità non indifferente di attesa. La lenza doveva scorrere con maestria tra le dita del pescatore il quale doveva fare attenzione anche ai grovigli. Il momento più temuto era quello in cui la purpara si ancorava, aggrappandosi magari in qualche cunicolo roccioso, su un fondale capriccioso. Per evitare tale sventura la purpara era provvista ti lu nieddhu, ossia di un anello di ferro che aveva esattamente la funzione di scapularla qualora si fosse impigliata. Quando invece tutto filava liscio, e il gradito ospite abboccava allu pete di jaddhina, il pescatore, ponderando bene il peso, tirava la purpara a bordo con strategica velocità e, con lucida rapidità, afferrava lu purpu. I tentacoli intrisi di schizzi sembravano fontane di sale sulla panca della poppa, mentre la cangiante mimetica del cefalopode catturava con curiosità gli occhi di chi lo osservava nei suoi movimenti sinuosi. Quando andava male lu purpu spruzzava sulla barca tutto l‘inchiostro nero contenuto nella sua ghiandola, appunto lu gnoru ti purpu, più propriamente detto dai pescatori lu milanu, destinato anche quello a diventare prelibata pietanza, soffritto, poi spalmato sul pane e gustato annanzi agli scogli. Lu milanu ti lu purpu veniva usato anche come terapia pi lu stericu (isterismo). Infatti molte donne a Santa Maria, soprattutto le anziane, raccontavano di curare i disturbi causati da ansia, stress o nervosismo (appunto lu stericu) con il nero di polpo, legato stretto in un fazzoletto e tenuto per giorni appeso ad altezza dello stomaco. Ecco perché le donne raccomandavano ai pescatori di non buttare mai lu milanu quando pulivano il polpo, ecco perché li aspettavano puntuali al molo, per accaparrarsi lu milanu e appenderselo sotto al grembiule.
Con la purpara si lavorava tutto l’anno, non c’erano stagioni per praticare questo tipo di pesca e, per andare a purpi, il mare ideale doveva essere un po’ ondoso. Infatti con l’arbata morta li purpi non si zzaccavanu. Durante l’estate i forestieri, durante l’inverno i paesani, tutti gradivano lu purpu, fresco, tenero, dal mare alla padella. A furia di purpare, di piedi di jaddhina, di piombi fusi, lenze, spineddhe, albe e tramonti, i pescatori mandavano i propri figli a continuare gli studi.
Così la purpara rappresenta un simbolo della mobilità sociale. Questi figli della purpara oggi sono impegnati professionisti, ma tra le mani hanno ancora il segno dei calli, i solchi della lenza, il sale tra le ciglia, pezzi di filazzuli dei padri in tasca, con legate le chiavi di casa. Un sorriso spunta ancora sulla loro faccia davanti alla vista ti lu pete di jaddhina…dei libri che si compravano dopo l’estate, si leggevano anche i sottotitoli, le prefazioni, gli indici e le note infondo alle pagine. Erano costati troppo sudore, troppe notti in mezzo al mare!
Sono Rosetta, figlia di Nzinu, e credo nella purpara.

Rosi Fracella