Si riporta l’articolo Sinodalità e conversione del Papato di Pantaleo Dell’Anna pubblicato nel numero di ANXA di settembre – ottobre 2017. SINODALITA’ E CONVERSIONE DEL PAPATO

Papa Bergoglio è chiamato ad attuare il Concilio a cui non ha partecipato

E’ fuori discussione che Bergoglio è un personaggio carismatico e trascinatore che riesce ad affascinare e a stabilire un rapporto diretto con credenti e non credenti. Ciò però non è sufficiente a dare un senso alla sua missione petrina e a caratterizzare il suo magistero, specialmente dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II che ha segnato una svolta significativa nella teologia, nella pastorale e nei rapporti della Chiesa col mondo contemporaneo.

Il Concilio, voluto da papa Giovanni XXIII, ha rinnovato profondamente la vita ad intra e ad extra della Chiesa e perciò chi intende attuarlo deve tener conto del contesto socio-politico e culturale di oggi. Il Papa del ventunesimo secolo deve avere quindi una solida base teologica, supportata da una conoscenza profonda e puntuale dell’insegnamento del Vaticano II. In questa società complessa in continua evoluzione, Bergoglio non è solo il Capo della Chiesa cattolica, ma anche l’uomo carismatico a cui guarda il mondo intero, “l’esperto di umanità”, come disse di sé Paolo VI (“Noi quali esperti di umanità” ) nel discorso al Palazzo di Vetro dell’ONU il 4 ottobre 1965.
Per capire a fondo la figura di Papa Francesco e “per evitare che la sua attività di leader della Chiesa cattolica e di Capo di Stato soffochi la sua dimensione di parroco” (M. POLITI, Papa Francesco segreto, nelle omelie a Santa Marta il suo vero pensiero, in “Il Fatto Quotidiano”, 27 luglio 2017), occorre anche tenere presente le messe mattutine, che celebra nella residenza Santa Marta dinanzi a poche persone, lontano dalle telecamere e dai giornalisti, e i brevi commenti del Vangelo all’Angelus domenicale. Egli, sottolinea il sociologo Giampiero Gamaleri nel suo volume, Santa Marta – Omelie, ”è sensibilissimo agli eventi” (p.7) ed ha la capacità di osservare e mettere assieme i fatti del mondo contemporaneo, gli episodi del Vangelo e l’afflato religioso. E’ questo il segreto della sua enorme capacità comunicativa. Nelle Omelie di Santa Marta affiorano molte sue esperienze personali, mentre è continuo il richiamo al Vangelo, fonte di gioia. La voce del Papa è la voce del Vangelo, realtà viva che orienta la condotta quotidiana dei singoli e della comunità sociale.
“Una delle accuse più ricorrenti, anche se spesso solo sussurrate di nascosto in ambienti ecclesiastici, -scrive Enzo Bianchi- è che papa Francesco sia senza teologia. Quasi che il linguaggio semplice e immediato, comprensibile alla gente, sia di per sé da squalificarsi perché non […] metodologicamente impostato. Al che viene da pensare –continua Bianchi- al parlare teologico di Gesù di Nazaret, fondato sulla semplicità spiazzante delle parabole e sulla loro qualità narrativa, non tanto assertiva o argomentativa” (Prefazione, in M. SEMERARO, Lumen Gentium, Marcianum Press, Venezia , p.17).

1) La Chiesa di Francesco è sinodale
Il Sinodo dei Vescovi è un’istituzione permanente voluta da Paolo VI con il Motu Proprio Apostolica sollicitudo del 15 settembre 1965, in risposta al desiderio dei Padri del Concilio Vaticano II di mantenere vivo lo spirito collegiale dell’esperienza conciliare. Infatti, scrive il teologo Giuseppe Ruggeri: “La riscoperta di una Chiesa sinodale, fatto non solo gerarchico o clericale, ma cuore pulsante della Chiesa tutta, costituisce uno degli effetti principali e visibili del concilio Vaticano II” (Chiesa sinodale, Roma, Laterza, 2017, Introduzione, p. XXIV).
Bergoglio, il 17 ottobre 2015, commemorando davanti ai Padri sinodali il cinquantesimo anniversario della istituzione del Sinodo , dopo aver ricordato quanto scritto su di esso dai suoi predecessori: Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, sottolineò che “Chiesa e Sinodo sono sinonimi“, quindi proseguì “il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”. Il 24 ottobre 2015, nel discorso a conclusione del Sinodo ordinario sulla famiglia, aggiunse che “l’esperienza del Sinodo ci ha fatto anche capire meglio che i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito; non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono. Ciò non significa in alcun modo diminuire l’importanza delle formule […], ma esaltare la grandezza del vero Dio […] e valorizzare di più le leggi e i comandamenti creati per l’uomo e non viceversa (cfr Mc 2,27)”.
Il discorso commemorativo dell’istituzione del Sinodo, uno dei più importanti di questo Pontificato, illustra il programma, già indicato nella Evangelii gaudium, che la Chiesa è chiamata a svolgere. Si tratta di un discorso unitario, coeso, pur nella sua articolazione: la sinodalità diffusa che impegna a camminare insieme laici, Pastori e Vescovo di Roma, il decentramento, la riforma dell’esercizio del ministero petrino, la natura e il fine di servizio dell’autorità, lo stile sinodale. Le citazioni riportate in seguito, se non vi è altra indicazione, si riferiscono a questo discorso.
La Chiesa a cui pensa Francesco si costruisce nella quotidianità. Il punto chiave è la sinodalità che, purtroppo, nel corso di questi anni, è stata via via ridotta, corretta e snaturata fino al punto che alcuni documenti finali dei Sinodi sono stati scritti prima del loro inizio.
Per Francesco invece il Sinodo “costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare”. Ai tredici cardinali che, all’inizio del Sinodo ordinario sulla famiglia ( 4-25 ottobre 2015) lo incolpavano di averlo pilotato, rispose innanzitutto invitando i Vescovi ad intervenire liberamente durante la discussione. Successivamente precisò che “in una Chiesa sinodale anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce” e sottolineò che “non è una limitazione della libertà ma una garanzia dell’unità” il fatto che il Sinodo “agisca sempre cum Petro e sub Petro”. Ai Vescovi, nell’ultima assemblea della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il 22 maggio 2017, ha raccomandato di “vivere la collegialità episcopale, arricchita dall’esperienza di cui ciascuno è portatore” e di camminare insieme perché “il passo sinodale rivela ciò che siamo e il dinamismo di comunione che animano le nostre decisioni”.
Sulla scorta dell’insegnamento del Vaticano II, Papa Bergoglio concepisce la Chiesa non come un museo che custodisce gelosamente le glorie del passato, ma come una realtà viva che propone la dottrina tradizionale, rendendola però comprensibile dall’uomo d’oggi e rispondente, nel linguaggio, alle categorie culturali della società contemporanea. Il suo progetto è avviare un processo di riposizionamento della Chiesa nella modernità. Il cambiamento che auspica non è in contrapposizione al passato, ma piuttosto il tentativo di correggere ciò che il tempo aveva deformato.
“Una Chiesa sinodale -secondo il Papa- è una Chiesa dell’ascolto” e l’ascolto reciproco dà la possibilità ad ognuno di imparare qualcosa. Le strutture ecclesiali locali devono essere perciò connesse con la base, in modo da poterne recepire le proposte. Il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli è precisamente il Sinodo dei Vescovi. Una Chiesa che “cammina insieme agli uomini”, conclude il Papa, e riscopre “la dignità inviolabile dei popoli […] e la funzione di servizio dell’autorità potrà aiutare anche la società civile ad edificarsi nella giustizia e nella fraternità”.

2) La “conversione del Papato”
Le innovazioni auspicate da Papa Francesco richiedono “un aggiornamento di alcuni aspetti
dell’antico ordinamento ecclesiastico”. Uno degli aggiornamenti, ritenuto urgente, è “la conversione del papato”, nel senso che questa istituzione deve organizzarsi in modo tale da poter funzionare in maniera diversa da come ha funzionato fino ad oggi. Conversione, nel senso etimologico di trasformazione, vuol dire ri-considerare l’esercizio del potere petrino alla luce dei criteri fissati nel Vangelo e nel Vaticano II. Si tratta, a ben osservare, di un ritorno al passato. Infatti, fino al decimo secolo, erano le Chiese regionali e nazionali che decidevano su tante questioni locali e solo in particolari circostanze si rivolgevano al Vescovo di Roma. Fu Gregorio VII (1073-1085) che, per ovviare all’andazzo che si era creato con la lotta per le investiture da parte dei signori feudali, che nominavano a loro piacimento abati e vescovi, decise di concentrare tutto il potere della Chiesa nelle mani del Papa. Francesco, invece, rifacendosi all’insegnamento del Vaticano II, auspica “una salutare decentralizzazione”. Perciò, citando l’Evangelii gaudium, “in una Chiesa sinodale -egli dice- non è opportuno che il Papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori”, poiché il Papa “non sta da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi”, anche se è chiamato “come Successore dell’Apostolo Pietro, a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese”. In questa prospettiva si comprende l’insistenza del Papa sulla valorizzazione del sensus fidei , che non permette di separare rigidamente l’Ecclesia docens dalla Ecclesia discens, giacché anche “il Gregge possiede un proprio fiuto per discernere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa”. Recentemente, il 14 settembre 2017, il Papa, nel discorso ai Vescovi nominati nell’ultimo anno, dopo aver detto che “il discernimento è un rimedio all’immobilismo del si è fatto sempre così”, ha raccomandato “una delicatezza speciale con la cultura e la religiosità del popolo” perché “esse non sono qualcosa da tollerare, o meri strumenti da manovrare, o una cenerentola da tenere sempre nascosta […] anzi bisogna averne cura e dialogare con esse, perché […] sono un vero soggetto di evangelizzazione, dal quale il vostro discernimento non può prescindere”.
Impressionano la lucidità e l’onestà di Francesco che, proclamando quotidianamente il Vangelo di Gesù, sa che “per i discepoli di Gesù, ieri oggi e sempre, l’unica autorità è l’autorità del servizio, l‘unico potere è il potere della croce”. Purtroppo sconcerta l’ipocrisia di quanti (laici, sacerdoti o Vescovi) trasformano talvolta il doveroso servizio in un potere arbitrario che disorienta, indispettisce e allontana i fedeli. Questi farisei di oggi sono più pericolosi di quelli di ieri, perché si considerano i soli possessori della verità.
E’ evidente come questo approccio del Papa, che supera le frontiere confessionali e filosofiche, risulti destabilizzante per i fautori di una dottrina concepita come legge e ordine e di una Chiesa gerarchicamente strutturata. Bergoglio non si è mai preoccupato delle critiche, anzi ha sempre auspicato un intelligente e fruttuoso dibattito, anche quando si è reso conto che alcuni cercavano il duello più che un serena discussione. Questo atteggiamento critico nei confronti del Papa non è una novità nella storia della Chiesa. Anche Paolo VI, quando morì, fu platealmente attaccato da un gruppo denominato “Civiltà cristiana” che affisse sui muri di Roma un manifesto con la scritta:”Adesso vogliamo un Papa cattolico”. Per quel gruppo “tra le colpe che inchiodavano papa Montini all’accusa di alto tradimento della civiltà cristiana occidentale vi era anche l’enciclica Populorum Progressio (26 marzo 1967)”, nella quale aveva fatto l’errore, secondo loro, “di non dividere il mondo tra Est e Ovest, ma osato invece testimoniare che la vera cortina di ferro era quella che divideva il Nord e il Sud del mondo, i popoli dell’opulenza dai popoli della fame” (S. FALASCA, Quando Paolo Vi richiamò la Chiesa alla vera Tradizione, in “Avvenire”, 22 febbraio 2017).

3) Il Vangelo della tenerezza e dell’amore
La rinuncia al Pontificato di Benedetto XVI e la elezione di Bergoglio a Vescovo di Roma e quindi a pastore della Chiesa universale furono per tutti una sorpresa. Spontaneo fu il tentativo di un confronto tra i due Papi. Ma ci si rese subito conto di trovarsi di fronte a due personaggi molto diversi per preparazione teologica e per stile comunicativo. La formazione teologica di Benedetto XVI è sistematica e accademica mentre quella di Francesco ha una specificità pastorale e, come scrive il Cardinale Walter Kasper, citando San Tommaso d’Aquino, è radicata nel Vangelo che “non è una legge scritta, non un codice di dottrine e precetti, bensì il dono interiore dello Spirito Santo, che ci viene dato con la fede e che opera nell’amore” (Papa Francesco.La rivoluzione della tenerezza e dell’amore, Brescia, Queriniana, 2015, p.41). Le leggi e le prescrizioni, continua Kasper, sono secondarie ed hanno il compito di “indirizzarci al dono della grazia o a farla fruttare”. Nel primo Angelus domenicale del 17 marzo 2013 il Papa, riprendendo una frase della Evangelii gaudium, ricordò che Dio “mai si stanca di perdonare, ma noi a volte ci stanchiamo di chiedere perdono”. Il cuore dell’annuncio di Francesco è l’immenso amore di Dio misericordioso verso l’uomo. Kasper, uno dei massimi esperti sul tema della misericordia, ritiene che essa sia il principio ermeneutico della fede e quindi sia al centro della riflessione teologica e dell’esperienza cristiana. Egli, nel suo volume, vuole dimostrare che il radicamento teologico del magistero di Francesco è il Vangelo, perennemente attuale perché Cristo è il Vangelo eterno e “la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili” (Evangelii gaudium, n. 11).
Per Francesco è fondamentale una rilettura “sistematica” del concetto di misericordia, partendo dal Vangelo. Con il termine misericordia, Egli non introduce una variante buonista nella tradizione cattolica , ma evidenzia come il mistero della salvezza incentrato nel Figlio di Dio, che si incarna e divide con l’uomo la faticosa esperienza terrena, è l’espressione più alta dell’amore misericordioso di Dio che cerca la pecorella smarrita. Chiesa in uscita , ospedale da campo, chiesa povera e dei poveri sono espressioni linguistiche che denotano un nuovo equilibrio tra Chiesa e mondo, ed esprimono una modalità di pensare la fede nel mondo post-moderno in prospettiva missionaria. Francesco non gradisce le forme di obbedienza alla Tradizione che scambiano lo spirito con la lettera , gli uomini con le idee, le apparenza con la sostanza. Egli, con il suo magistero, sta cambiando non solo il papato, la Chiesa e la pastorale, ma anche il modo di fare teologia. A oltre cinquant’anni dalla conclusione del Concilio e dopo decenni durante i quali la Chiesa italiana ha fatto pochissimo nello studio e nell’applicazione dei documenti conciliari, Egli che non vi ha partecipato, si sente impegnato ad attuarlo mettendo al centro del suo magistero la Parola, cui restituisce la centralità non solo nella teologia, ma nella essenza della vita cristiana finalizzata all’incontro con Cristo morto e risorto. Francesco va alla radice della dottrina: il Vangelo di Gesù, cui fanno eco, quotidianamente, le sue parole semplici e ispirate, i suoi gesti disarmanti e profetici. Francesco insomma esercita il suo ministero uscendo per strada non restando al balcone.

4) Conclusione
Il futuro della Chiesa passa attraverso il recupero del suo passato e il superamento di ogni forma di ideologia. Il passato porta a Gesù di Nazaret e il superamento delle ideologie porta ad aprirsi verso le altre religioni. Una prova concreta di questa apertura l’ha data il nuovo Arcivescovo di Milano, Mario Delfini, nel giorno dell’ingresso solenne nella diocesi ambrosiana (24 settembre 2017), quando agli Ebrei, agli Islamici ed ai rappresentanti delle altre religioni ha rivolto “una parola che è invito, è promessa , è speranza di percorsi condivisi e benedetti da una presenza amica di Dio”.
Papa Francesco, al giornalista Eugenio Scalfari che lo intervistava, dopo avergli fatto la domanda: “Ma lei, laico e non credente in Dio, in cosa crede”, avuta la risposta, replicò: “Io credo in Dio non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio” (Dialogo tra Francesco e Scalfari: “ripartire dal Concilio, aprire alla cultura moderna”, in “Repubblica”, 1 ottobre 2013. Questa espressione, già usata dal Cardinale Martini nell’intervista a Georg Sporschill (Cfr. C. M. MARTINI, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori , Milano 2008, pp.66-67) contiene in sé una profonda verità perché dà una visione della fede che supera la pretesa confessionale di sentirsi gli unici detentori di Dio e quindi di ridurre Dio ad una dottrina o ad una morale.