I consigli dello chef Falconieri Giorgio e cosa mangiare nel Salento nel periodo pasquale

La Pasqua è una festa di origine ebraica e ricorda la fuga dall’Egitto del medesimo popolo. Il nome originario deriva da pessah, che significa letteralmente “saltare oltre”, in ricordo della notte quando il Signore oltrepassò le case degli Ebrei, contrassegnate dal sangue dell’agnello sacrificato, risparmiandone i figli maschi. Oggi questa festa ebraica non coincide con quella cristiana perché i due rispettivi calendari sono diversi.

In ricordo del sacrificio dell’agnello, cui Cristo è assimilato come vittima, nel pranzo pasquale di moltissime regioni, un posto di riguardo è tuttora occupato dall’agnello – cotto al forno o arrostito sulla brace -, e da involtini realizzati con le sue interiora, che nel Salento prendono il nome di turcinieddhri, mboti, cazzimarri.

Per questa insostituibile presenza nel ricettario pasquale salentino, in passato non era difficile sentire la voce di macellai ambulanti che, a cominciare dal pomeriggio del Giovedì santo, si diffondeva per le vie dei paesi e dei centri urbani, al grido: A ci scurciamu l’agnellu! Ci tene cueri t’àuni! A chi scuoiamo l’agnello! Chi ha cuoi di agnelli!, offrendo le loro prestazioni per ammazzare e scuoiare al momento gli agnelli (per fare più che altro incetta dei velli) a coloro che, per atavica abitudine, li compravano vivi.

La pietanza del pranzo di Pasqua era costituita dai triddhri o millaffanti, mille fanti (o: malfatti?), ottenuti da un impasto di semola, uova, formaggio e prezzemolo tritato, sbriciolato con le mani; le palline informi e diseguali si lasciavano asciugare almeno per ventiquattr’ore, prima di essere cucinate direttamente nel brodo di gallina o di cappone. Per prepararli si utilizzavano le uova conservate durante il periodo quaresimale, uova che si adoperavano anche per confezionare la cuddhrura o puddhrica, una sorta di pane pasquale (di pasta dolce o salata): se si dava la forma di pupattola era regalato alle bambine, se di galletto o di panierino era regalato ai maschietti, se di tarallo agli adulti; contenevano uova in numero dispari, fermate con strisce di pasta. Le cuddhure erano cotte al forno. Si mangiavano soltanto dopo lo scioglimento delle campane pasquali (che un tempo avveniva il Sabato santo). Terminata la funzione religiosa, le fidanzate inviavano in dono alla futura suocera una cuddhrura con un uovo soltanto; un’altra con 21 uova al fidanzato ed altre, di diversa misura, erano destinate ai parenti del fidanzato; questi abitualmente ricambiava con un agnellino di pasta di mandorla che teneva appeso al collo un oggettino di oro.

Chef Falconieri Giorgio
Membro Euro-Toques italia