La tutela penale dal terrorismo islamico. Nota a sentenza

La Corte di cassazione, sezione quinta penale, con sentenza n. 48001 del 14 luglio 2016 ha annullato le condanne di quattro tunisini frequentanti la moschea di Andria per associazione terroristica ex art. 270-bis del codice penale e, per il solo Hosni Hachemi Ben Hassen (il discusso imam di Andria), art. 3, lett. b, della legge n. 654/1975 (istigazione all’odio e violenza contro il popolo ebraico). Dalle conversazioni telefoniche intercettate nel 2009 è emersa la comune esaltazione del martirio per la causa islamica e l’aspirazione a raggiungere i luoghi di combattimento a questo scopo. Nei precedenti gradi di giudizio ciò era stato considerato come un programma criminoso tale da poter desumere l’esistenza di una vera e propria associazione terroristica internazionale, ma ciò non è stato condiviso dalla S.C., che ha accolto il ricorso degli imputati, fondato nell’assenza di un loro contributo concreto all’associazione.

Per l’associazione di cui all’art. 270-bis cod. pen., si legge nella motivazione, dev’esserci «la concreta possibilità di un grave danno per uno Stato, nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione dello stesso, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell’intera collettività ovvero di un determinante esito costrittivo o destabilizzante nei confronti dei pubblici poteri». Un’«attività di proselitismo e indottrinamento, finalizzato ad inculcare una visione positiva del combattimento per l’affermazione dell’islamismo e della morte per tale causa», invece, si è annotato, «può costituire una precondizione ideologica per la costituzione di un’associazione funzionale al compimento di atti terroristici, ma non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito».
Per i «reati di pericolo presunto», come, appunto, quelli previsti dal citato art. 270-bis, non si può fare a meno di una valutazione in concreto da parte del magistrato guardando alla necessaria offensività del diritto penale. Ma questo è il punto. In materia di lotta al terrorismo islamico, in relazione alle circostanze particolari che lo distinguono, appare relativa la prevalenza della materialità di atti caratterizzati da consistenza ed effettività. Viene da chiedersi: non basta questa «attività di proselitismo e indottrinamento» a integrare l’esistenza del reato? È sufficiente l’applicazione delle misure di sicurezza? In questa fase della storia mondiale, e, per quel che ci interessa, italiana, non sarebbe il caso di ritenere necessaria una tutela penale per non trovarsi poi di fronte ai piatti già fatti del delitto? È concepibile il delitto senza questa preparazione? Pronunciati come questo della S.C. possono portare a sbandamenti in campo giudiziario, che sarebbero da evitare. Il dubbio, all’epoca emerso, ha avuto riscontro nel pensiero di un p.m.
La procura della Repubblica di Napoli ha ritenuto militante dell’Isis, e quindi da processare, Mohamed Kamel Eddine Khemiri, tunisino di 41 anni residente a San Marcellino, in provincia di Caserta, in quanto dedito al «proselitismo in favore delle organizzazioni di matrice islamica» e accusato di aver procurato documenti falsi ai migranti clandestini. Il giudice, invece, non ha considerato l’uomo, in carcere da agosto 2016, un reclutatore di kamicaze per mancanza di elementi probatori. Il p.m. ha deciso, però, di chiedere il rinvio a giudizio, specie perché il Khemiri aveva ammesso in qualche modo la sua adesione allo Stato islamico. Sbarcato da clandestino in Sicilia nel 1998, il tunisino era stato arrestato per spaccio di droga a Firenze, e i carabinieri del Ros avevano raccolto indizi della sua ideologia terroristica da conversazioni e messaggi. A richiesta del magistrato aveva risposto: «Non so per quale motivo ho fatto quei commenti; forse sarò stato scemo in quel momento». La notizia, avuta nel novembre 2016, turba non poco. Su una realtà che continua a destare orrore e apprensione a livello mondiale, qual è quella del terrorismo, con stragi, e anche di minori, e la decapitazione di persone esibita come macabro spettacolo, in Italia, terreno di organizzazione di questa gente, occorre ricondurre l’eventuale divergenza di idee tra magistrati in un alveo più ridotto, consono al caso. È vero che il pensiero può essere contrastante, tant’è vero che ci sono tre gradi di giudizio, ma in questa materia particolarmente delicata occorre una norma più puntuale. L’applicazione di una legge alla fattispecie comporta certamente una valutazione del magistrato, ma qui l’uso della discrezionalità deve fare i conti con il tragico fenomeno del terrorismo, da tempo oggetto di attenzione istituzionale, visti i metodi di questa guerra infida all’umanità fatta su base non territoriale, ma di propaganda, che fa leva sulla mancanza di ideali etici, sul radicalismo e sull’immaginazione distorta che ne segue in presenza di situazioni e problemi che appaiono senza soluzione, il tutto tinteggiato dalla comoda vernice della «fede» islamica. La considerazione dell’Islam sotto l’aspetto religioso, e cioè la possibilità di influenza della teoria della c.d. guerra di religione, non può trovare posto negli operatori.
Non è qui il momento di fare un excursus storico sulle guerre di religione. C’è stato sempre un motivo scatenante – e non si entra nel merito – ma, si osserva, portato avanti da adepti a viso aperto e non mascherati. Stranamente, Sergio Romano, dalle pagine del Corriere della Sera (17 settembre 2014), disse che «[…] parlare di terrorismo nel caso dell’Isis è concettualmente sbagliato [..] “terrorista”, in questo caso, è soltanto un artificio retorico, la parola con cui i governi demonizzano il nemico per dimostrare la propria fermezza e giustificare le misure d’eccezione che si accingono a prendere[…]». Parole non condivisibili, queste di Romano. Per le barbarie che si richiamano tutti parlano, e a giusta ragione, di «terrorismo», non solo i politici, ma anche i giornalisti, visto che il termine ricorre regolarmente in ogni tragica occasione di crudele assassinio e di trattazione del tema per fini di tutela sociale. Si guarda in sostanza alla natura criminale degli atti che non possono avere giustificazione alcuna. Tale natura, e il conseguente concetto di «terrorismo» anche in relazione agli orrendi metodi seguiti, rimane senza dubbio nella forma della «istituzionalizzazione» dell’Isis. Bisogna vedere, poi, che non si tratti di intenti di conquista dell’Occidente e del mondo sotto la bandiera della guerra di religione: si distingue tra Islam moderato e fondamentalismo […] (vedi «Terzo Millennio» n.4/2014), anche se su questo punto non mancano i dubbi, come quando, a proposito di certi terroristi nostrani, da parte moderata si parlò (con comprensione?) di «compagni che sbagliano». Il giornalista e scrittore Magdi Cristiano Allam nell’opera «Io e Oriana» ricorda che la compianta sua collega Oriana Fallaci «aveva ragione nel considerare i terroristi islamici la vera rappresentazione dell’Islam e nel condannare anche i sedicenti “musulmani moderati” che ci impongono la legittimazione dell’Islam come religione e la costruzione delle moschee».
In termini generali, sul concetto di «terrorismo», in quanto metagiuridico, giocano fattori di diversa natura, ideologica, politica, militare, culturale e anche religiosa. Nel 1998 Jack Straw, ministro britannico della Giustizia, disse che il soggetto oggi considerato terrorista potrebbe domani essere definito come un combattente per la libertà. Basterebbe, però, seguire i canoni dell’antico ius gentium, stante il naturale diritto ad una pacifica convivenza sociale, per dire che c’è una «libertà», inammissibile, di prevaricare l’altrui libertà di fede religiosa. Al di là del tema specifico, ci si può chiedere se si tratti di terrorismo, e punibile, o meno, quando l’azione sia svolta contro uno Stato dittatoriale, o uno Stato democratico ma in sostanza dittatoriale, o, comunque per affermare con la violenza diritti fondamentali. L’atto di violenza, terroristico o meno, può essere oggetto di diverse considerazioni. Può accadere che si tratti di guerra civile o di violenza per affermare pretese di natura etnica. Può trattarsi della costituzione di un nuovo Stato che si voglia estendere rovesciando un altro regime: Giuseppe Garibaldi era ritenuto un personaggio eroico da chi propugnava il Regno d’Italia, mentre per i fedeli al Regno delle Due Sicilie era un fuorilegge che occupava illegittimamente i territori. Ma nessuno dei fattori registrati dalla storia può offrire avalli di sorta, sia pure di parte. Il terrorismo islamico richiama le mire di conquista e le atrocità del nazismo.
In campo internazionale ci si è trovati di fronte al problema di trovare un accordo sulla definizione di «terrorismo». La Convenzione europea per la repressione del terrorismo, ratificata dall’Italia nel 1986, reca un elenco dei reati che per la loro gravità non possono essere considerati «politici», ma non una descrizione del reato di «terrorismo» Con il decreto-legge n. 374/2001 («Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale») si sono previsti metodi di indagine e di repressione per colmare una lacuna normativa. Con la legge di conversione n. 438/2001 si è varato l’art. 270-bis del codice penale per la punibilità, in campo di terrorismo internazionale, di atti di violenza politica nei confronti di poteri privi di requisiti minimi di democraticità e di forme di resistenza ad occupazioni del territorio da parte di regimi stranieri. Seguono gli artt. 270-ter, quater, quater.1, quinquies, sexies, tutti riguardanti il «terrorismo». La norma di emergenza non è qualificata, però, da alcuna certezza di diritto, in quanto gravida di diversi problemi di interpretazione di non facile soluzione riguardanti, a parte la compatibilità costituzionale, la stessa possibilità di applicazione della norma come norma cogente. Ne deriva una fattispecie criminale generica, non puntuale, proprio in relazione alla mancanza di una definizione autentica (da parte dello stesso legislatore) del «fine di terrorismo», che sarebbe stata indispensabile in un settore, come questo, di preoccupante pericolosità sociale, lasciando al magistrato l’ingrato compito di integrare la fattispecie stessa con proprie scelte, e al potere esecutivo la discrezionalità degli orientamenti. Se à naturale che un plausibile concetto di terrorismo sia definito a livello internazionale, i singoli Stati si adeguano, e se in tal senso non si provvede, c’è, intanto, il diritto all’autodeterminazione di ciascun popolo.
Le leggi politicamente volute vanno formulate da un apparato di supporto competente e lungimirante. Questo non è l’unico caso che si presenta in merito a formulazioni approssimative e ambigue di norme. È ora che i signori parlamentari si diano una mossa di merito, ma anche circa la qualità formale dei testi di legge. Non bisogna dimenticare che si tratta di una guerra non territoriale e che è coinvolta tutta la comunità internazionale, chiamata ad agire compatta perché non si faccia il gioco dell’Isis. L’Italia deve fare la sua parte e nulla consente di giustificare il timore di ritorsioni. Speriamo in bene, ma la lotta anti-terrorismo impone, anzitutto, la prevenzione, salva ogni altra determinazione.