Stamattina, invece del selfie sul lungomare o del solito video postato sui social, ho preferito fermarmi ad ascoltare la mia terra, rimanendo, ancora una volta, basita davanti alla sua umile, ma superba bellezza. Così, tra i lenti flutti e i bagliori di sempre, oro, smeraldo, cobalto, argento, diamante, Santa Maria al Bagno mi ha raccontato di essere stata un villaggio di pescatori, perla dello Jonio e di tanti suoi misteri. Un piccolo paesello insomma, popolato di barche e remi, cuenzi, purpare, ancore, ami, calari e caritari, ormeggi e strumenti consumati dalle mani callose e ruvide dei pescatori. Scendendo giù al molo, Santa Maria ricorda le notti di tempesta, quando le mareggiate e i tuoni rimbombanti sotto il plumbeo ponente, buttavano giù dal letto i pescatori e le loro famiglie. Si correva a tirare più su le barche, a forza di palanghe, per metterle al sicuro dal mare forte, per poterle ritrovare ancora vive all’alba, quando si tornava al molo per andare incontro a una nuova battuta di pesca, speranzosi e inzuppati di nuovo coraggio. Le barche, per i pescatori, erano esseri viventi, membri della famiglia anche loro. Verde, rosso, azzurro, bianco ai pennelli e venivano ricolorate, rinfrescate ogni anno, a fine settembre. Poi un grande telo impermeabile le ricopriva quando non solcavano le onde, per ripararle dal sole e dalla muttura, l’umidità notturna. Una grossa spugna le ripuliva dagli stagni di sabbia e sale adunati sotto la poppa, a prua, tra le panche di bordo, dai residui di squame e dalle lische essiccate. La barca non custodiva solo gli ormeggi, la barca era preziosa, era la casa e, in un secchio di latta o plastica, conservava perfino una borraccia con dentro un sorso di caffè, un pezzo di pane, oppure frizzuli di frisa raccolti dalla tovaglia la sera prima. Il respiro delle barche si mescolava con quello del mare e, quando il mare cantava al soffio violento del maestrale, le barche finalmente si addormentavano, proprio lì, sotto la spiaggia, dove un tempo c’era il porticciolo dei pescatori. Sulle prue, incastrate in grosse ceste, riposavano anche le reti, gocciolanti sudore, con qualche ciuffo d’alga ancora penzolante tra i buchi e un guscio di conchiglia impigliato tra la ringhiera di piombi e sugheri. Calate e tirate, tirate e calate, rattoppate con maestria sugli usci delle case, strette tra i piedi e ripercorse palmo palmo con l’acuceddha e il filo da pesca, le reti costavano un bel gruzzolo ai pescatori, risparmi e sacrifici. Maglie larghe per caciuli, sarachi, lutrini, scorfani, spicaluri e vario pesce da zuppa, sugo o grigliata, maglie strette per li curnali, sottili e brillanti, piccolissimi pesci noti nel gergo dei pescatori come argentini.
Santa Maria poi si guarda le mani, vede le cassette con il pesce dentro, le buste, le bilance, i secchi cu li purpi cangianti e si ricorda di quando i pescatori salivano le scale del molo, si sciacquavano i piedi sotto la vecchia fontana del pianerottolo e, affannati, correvano verso la piazza, al mercato coperto, per vendere il pescato e fare la sciurnateddha. Con i pantaloni attorcigliati, le barbe rispuntate nella notte, i baffi arruffati dagli schizzi e i cappelli disordinati sembravano finti pirati approdati chissà su quale isola, dopo lunghe traversate. Al mercato, sotto alla chiazza coperta, ogni mattina si svolgeva un grande concerto sinfonico. Dall’ orchestra dei fruttivendoli, dei macellai, dei contadini a Km zero, dei salumieri, delle donne con la pasta fresca sui grembiuli, delle massaie con le uova e il cacio ricotta sulle ginocchia, dei fiorai, si levava ogni giorno una colonna sonora inedita, tra prezzi ripetuti ad alta voce, inviti riecheggianti tra le botteghe, sconti declamati, risate e sorrisi, bicchieri ti mieru e bocconi di provola. Ogni tanto dalla folla usciva fuori tono una bestemmia. In un angolo del mercato c’era il venditore delle erbe aromatiche, con il tavolo colmo di rosmarino, salvia, basilico, menta, profumi traboccanti da grandi cesti ancora sporchi di zolle. Immancabile lu milone, cioè l’anguria, tagliata e offerta ai clienti fresca, in spicchi rossi e croccanti. I pescatori, appena arrivavano, avevano già i loro fans che li accerchiavano e che cominciavano a contendersi i pezzi più grossi. Tra le mani ancora rigonfie di mare, scivolava il pesce rilucente, fresco, dall’occhio vivo e dalle branchie vermiglie. Presto finiva nelle buste e poi dalle buste sulle bilance. I prezzi del pesce fresco non ammettevano sconti e chi lo voleva doveva pagare tutto quello che valeva. A qualche signora impertinente, che osava fare a muzzu, i pescatori esclamavano: “va’ e piscatilu te!”
Santa Maria al Bagno racconta, mentre racconta rivede la ciurma dei suoi infaticabili pescatori, li ricorda uno per uno, con uno strascico di languida nostalgia nello sguardo. I pescatori sono ancora tutti lì, al molo. Eccoli, nitidi come in un acquerello di Ospitali: ci sono i soprannominati fratelli Cozza con Ucciu, Nzinu, Gigi, Mario con Teseo. Poi spuntano chiari Nino e Gigi Lezzi e ancora la famiglia Capoti con Ucciu, Mimino e Gigi. Più in là Santa Maria ci porta davanti alla barca di Mario Pusterla con Mimino, Angiulinu e Gino, mentre su un’altra ecco tutta la famiglia Murrone con Vittorio, Donatucciu, Damiano e Vitucciu. Indimenticabili i Marsala, soprannominati Cardilli, con Ginu e Antonio, insieme ai gemelli Marcello e Roberto che preparano l’esca. Dritti sulla prua si scorgono i Dell’Anna con Augusto, Gino e Franco, poi ancora Fiorello Ucini e Gigi Felline che riassettano le reti. Con i piedi scalzi sulla riva c’è anche Stefano Falcicchio che aggiusta le palanghe. Tutti guardano il ponente, scrutano la luna e le maree. Auspicano tempi migliori, una bonaccia per il mondo intero, una pesca miracolosa di valori per le generazioni future, una barca dove ci siano due frizzuli di felicità per tutti. Sono stati una vera scuola del mare dove figli, nipoti, amici hanno imparato a remare, a salpare e a tornare, a essere temerari e prudenti, a gettare le reti, a scrutare il cielo, a leggere il bagliore del faro durante la notte, ad amare il mare, a non arrendersi, a condividere il ritorno, a tirare la barca tutti insieme, a guardare senza ombre il pescato altrui, ad orientarsi con il sole, le stelle, i punti cardinali. Hanno raccontato della guerra e dell’accoglienza verso gli sfollati dai campi di concentramento, hanno tramandato abitudini e nomignoli dei luoghi costieri.
Oggi, in questo “villaggio di mare”, i pescatori e le loro barche non ci sono più. Pochi sanno i loro nomi. Il mercato coperto, con la sua orchestra di voci tipiche, con la sua coreografia di profumi e colori, è stato cancellato. La fontana sul pianerottolo inondato di sabbia è sparita, le case dei pescatori sono diventate BeB, trattorie e bar. Solo il molo è ancora lì, testimone di attracchi e partenze. Se il traffico si fermasse per un istante e il brulichio intorno si attutisse, tra i suoi bastioni potremmo ancora percepire la voce dei pescatori che, al tramonto, intona canti popolari, voce che invoglia : “agnuni, barca a mare e ientu a poppa ca lu tiempu è buenu!” E chissà… un ritorno al mare, alle radici più profonde della nostra storia, ci renderebbe pescatori sempre più tenaci delle meraviglie della nostra terra.
Fosse per me affiggerei almeno una targa giù al molo, in ricordo dei pescatori di Santa Maria Al Bagno, figli del vento e maestri di virtù e valori che si stanno smarrendo per strada. Ma forse l’omaggio più bello è ascoltare la mia terra, i suoi racconti densi di segreti e cercare di tramandarli, pagine popolate di tradizioni e sapori, di eroismi quotidiani, di piccoli uomini bagnati di sale, con le braccia forti come la scogliera e gli occhi profondi come i fondali rocciosi, tutto per portare avanti onestamente le proprie famiglie. Preferisco sedermi al molo e, come un ragazzino di oggi al seguito del suo influencer preferito, non staccare mai gli occhi da tutto ciò che la mia terra può regalarmi attraverso il display unico del suo passato.
Sono Rosetta, figlia di Nzinu, e la barca mi ha insegnato cos’è la vita.
Rosi Fracella