Il mare, visto dalla barca, è tutta un’altra cosa. Dalla barca il mare ti svela l’ignoto.
La costa la scopri, la impari, ne apprezzi gli scorci suggestivi, le figure antropomorfe degli scogli, i nasi, i profili di donna, i volti di bambini, le proboscidi degli elefanti, le orecchie dei lupi, il dorso degli orsi appisolati, un koala peloso che dorme pancia in giù, il cappello di una strega. Ne osservi gli strati di roccia, i colori pastello della pietra, scopri le grotte, le insenature dolci o tenaci, gli anfratti paurosi, le torri, fin sopra ai sentieri sterrati, con la frangetta delle piante di cappero che spuntano verdi e selvagge sulla fronte dei muretti a secco. Dalla barca i suoni e gli odori sono inediti, insoliti, impensabili, le voci sovrumane, le musiche profonde, quelle delle acque azzurre che lambiscono le secche e abbeverano l’udito.
Quando salivamo in barca era l’avventura più entusiasmante dell’estate. Lui il capitano temerario dei mari, noi i suoi pirati ai primi ormeggi. Il cappello ricamato di sale e gli occhi azzurri come di falco che scruta l’orizzonte e taglia le nuvole, la canotta bianca e le ciabatte di plastica intrise di passi: era mio padre, l’ammiraglio della vita, cuore gigante, a misura di oceano, muscoli da rematore. Salivamo in barca da uno scoglio sotto casa. Quel posto, lui e i pescatori, lo chiamavano “li petre cadute”, ossia il luogo dove un cumulo di massi, in passato, era precipitato nell’acqua creando uno scorcio marino brillante di verde smeraldo e giochi di ombre vellutate. Lì, sulla punta di uno di quegli scogli, mio padre attraccava la barca, ancorandola con una fune robusta e salda, “lu calaru”. E da lì salpavamo contenti per varcare quel lembo di Jonio che culla le nostre coste, navigando per Santa Maria al Bagno, poi per Santa Caterina, fino al mare dell’Alto, spingendoci fin dentro alla Baia di Uluzzo, in quella cornice di pini e mirti in cui è incastonato Portoselvaggio. Qui mio padre ci invitava a leggere il mare e la sua meravigliosa mappa, a levare gli occhi e a puntare con lo sguardo ogni elemento di quel paesaggio che è casa nostra, perla della nostra Terra salentina. Dalla barca ci raccontava la storia dell’Alto e le sue leggende, ci indicava le grotte, le tipologie di pesce, ci illustrava in modo dettagliato le caratteristiche del fondale. Mai più racconto è stato così affascinante, mai più nei libri ho incontrato voci così avvincenti. Dalla barca il mare diventava il manuale delle rotte a Km zero, l’atlante dei siti archeologici, la pagina in cui l’uomo di Neanderthal aveva lasciato il suo segno, il giardino dei fossili addormentati sotto la coperta dei secoli. Tutto, dalla prua, poteva essere letto sotto la lente della curiosità, in modo capovolto, imprevedibile, incancellabile.
Quando il sole era alto, dopo l’esplorazione della costa, mio padre tirava a bordo i remi stanchi e gettava l’àncora verso il largo. Era quello il momento dei tuffi dalla barca! Chi da poppa, chi da prua, ognuno si prodigava nel tuffo da nuotatore e, tra “panzate” e cadute a candele, era un tripudio di schizzi e risate. Tutto riecheggiava in quella baia come un canto di felicità, la nostra. Mentre noi sguazzavamo assetati d’estate, mia madre apparecchiava la panca della barca come fosse tavola di casa. Piano piano slacciava lo strofinaccio che teneva abbracciata la teglia della pasta al forno (“sagna” al mio paese per contrazione del termine “lasagna”) e cominciava a preparare, a bordo, la pietanza per ognuno. In quel momento all’odore del mare si mescolava quello della terra, del grano, dei pomodori, del vino, delle polpette con il sugo, del formaggio.
Nella splendida Baia di Portoselvaggio rimanevamo ancorati fino al pomeriggio, fino soglie del tramonto, quando, con gli occhi appiccicosi di salsedine e i teli simili a bizzarre vele latine, ci apprestavamo a tornare da dove eravamo partiti, ossia dalle “petre cadute”. Questo era il nostro weekend, con esplorazione della costa e full immersion nella natura. C’era stato il mare da ascoltare e la Grotta del Cavallo con i suoi reperti preistorici da scoprire, il grande libro della nostra Terra aperto davanti agli occhi ed egregiamente illustrato da mio padre. C’era stato lo spirito di adattamento, come sempre, e un profondo sentimento di gratitudine nel bagaglio del cuore. Tutto questo era il nostro tutto.
Sulla strada che corre tra Santa Maria al Bagno e Santa Caterina avevamo una piccola casa in affitto che, ogni anno, da giugno ad ottobre, abitavamo per facilitare il lavoro di mio padre, pescatore del luogo. Su quella strada, nei pressi delle “petre cadute”, abitavamo in questa piccola casa. Mia madre, in quella casa a ridosso del monte, ci portava di tutto, perfino le foglie d’acqua. Ma la barca era il nostro castello galleggiante e la nostra nave da crociera.
By Rosi, figlia di Nzinu!