IL SUSHI DI MIO PADRE: curnali a Santa Maria al Bagno

L’argento è figlio del mare. D’argento è la lastra marina nelle misteriose sere di luna piena, argentea è la bassa marea, quando il vento si è assopito e i pescatori dicono che è “arbata morta”. D’argento sono le conche ripiene di sale. Argentee erano le mani mio padre, brillanti squame essiccate. D’argento vivo e luccicante erano gli argentini, piccolissimi e agili pesci che, a banchi densi e sguscianti sotto la superficie limpida del mare, correvano tra le onde, rincorrendosi sotto le lame del sole, zampillando sotto il velo dell’acqua, guizzando e scivolando a chiazze iridescenti tra un tratto e l’altro. I pescatori di Santa Maria chiamavano gli argentini con il termine “curnali”.
Quando gli argentini arrivavano, perlopiù tra gli sgoccioli di agosto e le soglie di settembre, i pescatori li avvistavano dalla scogliera, quando si appostavano per vederli spuntare sulla pista del mare, rincorsi da qualche affamata ricciola. Appena gli argentini facevano ingresso nel mare di Santa Maria, i pescatori preparavano indaffarati gli ormeggi necessari. Mio padre rinfrescava al molo le reti. Erano reti a maglie fitte, strette, piccolissime, adatte a quel tipo di pesca, idonee agli argentini, invisibili, sottili, flessibili pesci del nostro Jonio, astuti e fulminei nuotatori.
Quando tutto era pronto, si partiva per la pesca, di solito un frangente prima del calare del sole, quando la tramontanella stirata calmava il fragore del mare pomeridiano e azzittiva il ponente brontolone. Mio padre, raggomitolato a poppa, pantaloni attorcigliati e canotta bianca, infilava la testa nello specchio e con lo sguardo seguiva lo sciame degli argentini. Lo specchio era un secchio metallico, chiuso all’estremità con un vetro a tenuta stagna, utilizzato dai pescatori per esplorare il fondale. Quando eri dentro allo specchio e guardavi gli abissi ti sentivi un sub dalla barca, niente maschera e pinne, solo tu, lo specchio e il mare.
Con la testa infilata nel secchio, mio padre cercava di avvistare i branchi di argentini, dando indicazioni sulla traiettoria dei pesci, pilotava poi chi stava in barca. In quei momenti, come un vigile delle onde, lo si poteva sentire esclamare nel gergo dei pescatori: “drittu a me, totta a poppa”. Mentre con lo sguardo seguiva gli agili pesci, cercando di capirne la direzione, senza perderli mai di vista, con la voce incitava i rematori a far correre la barca al seguito delle luccicanti prede. Si creava così un vortice di luce che mescolava l’acqua al cielo e tagliava in due il variegato tramonto. La barca scivolava sul mare come un naviglio magico, schizzando l’aria di iridescenti e molteplici perle di sale. Quando gli argentini diventavano densi e padroneggiavano quel tratto di mare esplorato, mio padre tirava fuori la testa dal secchio e si chinava lesto verso le reti che scorrevano veloci dalle sue mani al mare, ruzzolando con i piombi sulla fiancata della barca. Era questo il momento concitato in cui si dovevano chiudere li curnali. Infatti le reti, calate in un baleno, facevano una barriera intorno ai pesci, abbracciandoli inesorabilmente, costringendoli a muoversi solo all’interno del loro fitto recinto di maglie. La barca diventava una batteria galleggiante che tra tamburi, piatti, rullanti e cassa, risuonava per tutto il mare. A bordo, tolto uno solo che remava, tutti gli altri, chi con mazze, chi con arnesi vari, chi con i piedi sul fondo dello scafo, si destreggiavano a fare rumore, portando un ritmo quasi tribale accompagnato a squilli intensi di voci. Io con un piccolo bastone facevo la mia parte, battendo sulla panca della barca, fiera di far parte di quella band di pescatori. Più forte erano le percussioni più probabilità c’era che li curnali entrassero in grandi quantità nella rete. Per agevolare la fuga dei pesci verso il recinto delle reti, mio padre, di tanto in tanto, lanciava in acqua la “mazzara”, ossia una possente pietra legata stretta ad una fune. Come una catapulta marina, la mazzara sconquassava il fondale, spaventando li curnali che, per scappare, rimanevano impigliati nelle maglie. L’operazione durava finché, calato nuovamente lo sguardo nello specchio, mio padre non si assicurava che la pesca era stata buona e soddisfacente. Le reti si tiravano a bordo, grondanti argento, li curnali venivano sfilati via, uno ad uno, con pazienza e attenzione, una volta tornati al molo. Si scendeva dalla barca e tutti gli amici accorrevano per dare una mano, si riempivano cesti e cassette, si sciacquavano le reti, si ripulivano gli ormeggi. Lungo il muretto molti si soffermavano ad assistere al rito, altri scendevano e si prenotavano il chiletto da portare a casa, Santa Maria si riempiva di odori e colori e sembrava un borgo vestito a festa. Quei minuscoli lingotti d’argento, conquistati con tanta fatica, rappresentavano un guadagno per le famiglie dei pescatori che a fine estate potevano affrontare le spese con una manciata di serenità. I pescatori distinguevano dagli argentini un altro tipo di pesce molto simile, ma differente, che chiamavano “trenula”. Come si mangiavano li curnali? Nell’olio caldo, fritti naturalmente, con il sale, tutti interi, dalla testa alla coda, con tutte le squame e le spine, minute e sottili, possibilmente seduti sul marciapiede a ridosso del mare. Oltre alla frittura, mio padre preparava li curnali in modo innovativo: li adagiava crudi in una ciotola e li marinava con olio d’oliva, limone, pepe, prezzemolo sminuzzato e sale. Nessuno osava toccare la pietanza prima dei due giorni previsti per la perfetta marinatura, tutti aspettavamo il momento con l’acquolina in bocca e stavolta battevamo con ansia le forchette a bordo tavola. Quando scoccava l’ora, mio padre apriva il frigo e portava finalmente il suo prelibato sushi a tavola, scoperchiava la ciotola e ci faceva sentire prima “lu ndore ti lu mare”. Poi ognuno gustava il suo piatto di curnali crudi, squisiti, divorando un tozzo di pane impregnato di olio, limone e pepe. Ci leccavamo avidi le dita e con lo sguardo, dall’uscio di casa, salutavamo la nostra barca, geniale batteria galleggiante, adagiata sulla riva, stanca, ma felice, proprio come noi.
Rosi figlia di Nzinu

Rosi Fracella