COSA RESTA DELLA LEZIONE DI DON MILANI

1) Come eravamo
Ho iniziato la mia attività di insegnante a ridosso degli anni ’70 e devo molto, nella mia esperienza lavorativa, alla Lettera ad una professoressa, alla sua analisi lucida e alla sue indicazioni spiazzanti sul fare scuola. Quelli come me che sono venuti fuori dal liceo classico ed hanno continuato gli studi classici all’Università, quasi niente sapevano del “come” fare scuola , specie a livello di secondaria inferiore.

Gli studi fatti, che pure ci hanno dato tanto non solo nelle discipline classiche, ma anche sul piano della formazione e maturazione umana, ci avevano lasciati digiuni su qualsiasi approccio didattico che non fosse il riprodurre pari pari le modalità di insegnamento dei nostri docenti. E che altro?
Intanto nel ’62 era stata istituita la Media Unica che entrerà in vigore il 1° ottobre del ’63. Le classi erano molto eterogenee e i dislivelli fra alunni marcati, mentre noi, dinanzi a questa nuova realtà, ci trovavamo disarmati e ci sentivamo impotenti. Capivamo però che fare “come avevano fatto i nostri insegnanti”, riprodurre cioè la sequenza: spiegazione-interrogazione, non dava risultati e molti restavano indietro. La colpa dei cattivi risultati, ovviamente, veniva fatta ricadere sui ragazzi perché non studiavano e non volevano saperne di studiare. Piuttosto confusamente, però, cominciavamo a renderci conto che i ragazzi non comprendevano i testi che leggevano e perciò li rifiutavano. Promuovemmo quindi un’indagine che ci diede la certezza che i nostri allievi avevano enormi difficoltà a comprendere i testi delle diverse discipline, le parole che vi erano scritte ed i concetti che esse esprimevano. Fu spiazzante e andammo nel pallone.
La Lettera, che in quel periodo leggevo, non è che mi abbia dato un metodo alternativo, qualche spunto sì, ma mi ha aiutato a riflettere per trovarne uno di metodo che cercasse di fare al caso dei ragazzi che avevo dinanzi. E i ragazzi che ho avuto dinanzi, nei primi nove anni di insegnamento nella Media, erano ragazzi deprivati materialmente e culturalmente, con un vissuto difficile alle spalle. Sono loro che mi hanno interpellata e in certo senso costretta a trovare nuove strade. Devo moltissimo a quei ragazzi perché mi hanno aiutata a sforzarmi di capire, a trovare soluzioni utili per loro e quindi a crescere anche io umanamente e professionalmente. Una delle prime cose che mi è stata chiara è che i ragazzi percepivano lo studio della lingua italiana non come un unicum, ma come una serie di pezzi (grammatica, antologia, tema, ecc.), ciascuno con una sua connotazione, come se i diversi segmenti potessero esistere ognuno per conto proprio. Certamente l’italiano che si studiava a scuola era altro rispetto alla lingua che parlavano e sentivano parlare. I guasti di questo stato di cose ricadevano sia sulla comprensione dei testi, sia sulla produzione scritta. E’ su queste mie iniziali riflessioni che io ho incontrato la Lettera del Parroco di Barbiana al quale, a 50 anni dalla morte, sento di dovere un tributo perché ha segnato una strada chiara nel dare le parole, la lingua a tutti, specie agli ultimi, quale riscatto dalla loro condizione di minorità.

2) Don Milani prete ed educatore
Molto si è detto e scritto su Don Milani, sin da subito. Egli, come ogni persona che non conosce vie di mezzo, è stato molto amato e molto avversato, bandiera rivoluzionaria di cambiamento radicale per alcuni, come nel ’68, e per altri colui che ha distrutto l’autorità dei docenti e lo studio con la parola d’ordine non bocciare!
Persona scomoda penso lo sia stata davvero, scorrendo i suoi scritti, da Esperienze pastorali (1957) alla Lettera ai cappellani militari, L’obbedienza non è più una virtù (1965), che gli costò l’incriminazione e la condanna post-mortem, alla Lettera ai giudici (1965) fino alla più famosa Lettera ad una professoressa (1967). Scomodo perchè controcorrente, perché aveva la sguardo lungo di chi anticipava i tempi, perché non aveva peli sulla lingua per nessuno, né forme di soggezione verso qualcuno, perché era intransigente con se stesso e con gli altri. Aveva dentro di sé la forza prorompente del convertito, del neofita, a cui è estranea la stanca condiscendenza di tanti suoi confratelli dalla mentalità accomodante, che si sentono al sicuro dentro “strutture ecclesiastiche sclerotizzate”, come egli le definisce in Esperienze pastorali .
Don Raffaele Bensi, padre spirituale di Don Lorenzo, a padre Fabretti che gli chiedeva se Don Milani fosse stato orgoglioso, ebbe a dire “un orgoglioso di tre cotte… Nel senso che quando si trattava della verità non guardava in faccia a nessuno”! E più avanti “trasparente e duro come un diamante, doveva sempre ferirsi e ferire”.
Alla base di tutta l’esperienza di Don Milani c’è la scelta radicale del Vangelo e il Vangelo, come egli dirà “non è accomodante, è urtante”. Resterà sempre coerente con questa scelta nella sua vita e nelle sue opere. L’opzione per i poveri si colloca dentro questa scelta, così come l’amore per la Chiesa e per la verità, che lo fa essere anticonformista.
Questo amore assoluto, che fa tutt’uno con la sua vocazione sacerdotale e con la sua fede conquistata, è il denominatore comune, la molla che sottende alle sue azioni. Così come il culto della parola, soppesata, resa essenziale, usata con franchezza, offerta evangelicamente come patrimonio ai poveri, agli ultimi, perché solo la lingua ci fa eguali. Lui, prete, è educatore per amore. Sia quando ribadisce con forza il primato intangibile della coscienza per difendere l’obiezione di coscienza , anche perché “il primato della coscienza sulla legge dello Stato è dottrina ufficiale di tutta la Chiesa” , come dirà nella Lettera ai giudici del 1965, sia quando denuncia le storture delle strutture ecclesiastiche e dell’episcopato di cui, in una celebre lettera del 1959 a Pistelli, lamenta certi comportamenti puerili ed imbarazzanti. Afferma con sicurezza “vivremo nella gioia della nostra libertà di cristiani. Criticheremo Vescovi e Cardinali serenamente. Criticheremo i nostri Vescovi perché vogliamo loro bene . Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili”. A queste parole fa eco Don Bensi quando, sempre a Fabretti, dice “Anche se ti sparava parolacce era per un impulso d’amore”. Non manca poi di indicare a tutti, preti e laici, per una profonda conoscenza del Vangelo “la scrupolosa ricerca scientifica del vero significato di ogni parola e atto del Signore (Lettera a M. Cloche, 1952). Ed è ancora per amore che egli critica ferocemente la scuola pubblica che non vuole abbattere, ma vuole che capisca i suoi errori per emendarsene, vuole scuoterla per cambiarla in meglio. L’errore più grave di questa scuola è di essere classista: manda avanti, promuove ricchi e benestanti e lascia indietro, boccia i poveri. E’ per amore che non tace e dedica la sua missione di prete a fare acquisire agli ultimi l’uso consapevole e avvertito della parola, come forma di riscatto, come arma non violenta, ma con una carica sovversiva. “La povertà dei poveri -dirà in Esperienze pastorali- non si misura a pane, a casa , a caldo. Si misura sul grado di cultura”. E ancora, nella catechesi ai genitori, per responsabilizzarli “quando avete buttato nel mondo d’oggi un ragazzo senza istruzione, avete buttato in cielo un passerotto senza ali”. Lui vuole darle quelle ali ai giovani con la scuola popolare a Calenzano prima e soprattutto la scuola a Barbiana dopo, che fanno tutt’uno col suo essere prete e i suoi valori di credente. Quei valori che gli rendevano inaccettabile e insopportabile l’abitudine del tempo di fare andare gli orfanelli dietro ai funerali, quasi ad esibire il loro status di orfani, in cambio di un’offerta all’orfanatrofio che li ospitava.
Quest’uomo vero, con i suoi pregi e i suoi difetti che non dissimula mai, tanto più prete quanto più pienamente uomo, mai erettosi su improbabili piedistalli, è avversato nella sua breve ma intensissima vita dalla Chiesa del tempo, al punto che ai suoi funerali ci furono quattro gatti. “Pochissimi preti, il Cardinale assente. Per lui non fu nemmeno rispettata la consuetudine che, in caso di morte di un sacerdote, a celebrare fosse il Cardinale insieme ai preti del vicariato” (A. GESUALDI, Don Lorenzo Milani).
Il 20 giugno 2017 però, sia pure a distanza di 50 anni, il Vescovo di Roma, Papa Bergoglio, lo ha risarcito, rendendogli pubblico omaggio e fermandosi a pregare sulla sua tomba perché, sono sue parole, “la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo”
3) La lettera dirompente
La Lettera ad una professoressa fu un sasso nello stagno del “si è fatto sempre così” di una classe docente non abituata a riflettere criticamente su stessa, ma anche di una classe politica che sentiva di aver fatto il proprio dovere con l’istituzione della scuola Media Unica. La quale, semmai, proprio per la forte eterogeneità e disparità dei suoi alunni, finiva col mettere in luce ancora di più le sue contraddizioni, quelle di una scuola che non sapeva rispondere al dettato costituzionale dell’art. 34, perché lasciava indietro tanti e specialmente i più poveri. Erano loro che venivano copiosamente bocciati. Come se “Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri -dicono i ragazzi di Barbiana- ma Dio non fa di questi dispetti ai poveri”.
Ci fu una levata di scudi della classe docente che non ci stava a farsi mettere sotto accusa. Gli insegnanti si sentivano maltrattati, perché veniva denigrato o non capito il loro lavoro. Ma non si trattava di questo. Cosa aveva allora questa lettera di così ustionante, perché era capace di provocare un simile sommovimento? E’ molto semplice. Don Milani ci aveva aperto gli occhi, mettendo il dito nella piaga, dicendoci cioè che l’italiano che si insegnava a scuola non era funzionale all’uso. Non serviva cioè a capire ciò che uno ascolta o legge, nè a farsi capire quando parla o scrive. Un italiano inefficace per la comunicazione quotidiana e per i bisogni concreti della vita.
La scuola, con i suoi vecchi metodi, non riusciva a colmare i dislivelli iniziali fra ragazzi che derivavano dalla loro differente provenienza. Restavano indietro sempre i soliti che cumulavano ripetenze e abbandoni con enormi ricadute sociali.
Tullio De Mauro, nella Storia linguistica dell’Italia unita dice: “si sono avvicinati all’istruzione centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze nelle cui famiglie non esisteva un libro, l’abitudine di leggere i giornali, la pratica del parlare italiano”. Questo creava alla scuola problemi, ai quali Don Lorenzo rispose in modo del tutto originale con la scuola di Barbiana, dove non si praticava quell’eserciziare fine a se stesso, altro rispetto ai bisogni dei ragazzi. Nella scuola di Don Milani si apprendono le regole dello scrivere, (per dire cosa, a quale scopo, verso chi …), la grammatica non fuori contesto, ma “in situazione”, nell’esperienza concreta cioè del leggere e dello scrivere e si legge , oltre al giornale, anche l’Apologia di Socrate e il Critone di Platone e l’Autobiografia di Gandhi. E si studiano le lingue straniere (più di una!) e la musica e si va in officina per imparare la manualità come “fare ragionato” e si va anche all’estero per esercitarsi nelle lingue straniere e tante altre cose. Soprattutto si studiano le parole perché siano comprese e possedute, diventando patrimonio dei ragazzi. “Una parola diventava un mondo, ci diceva da dove veniva e come la si può usare e mille frasi diverse in cui serve e tutte le sfumature dei suoi significati e come la si ritrova in altre lingue e come si compone con altre parole e quante altre parole nel deriva… Si voleva bene a delle parole … era la lingua la famosa chiave per tutti gli usci” (Lettera di Ferrini, 1958). E’ delineato in pochi tratti tutto un programma innovativo-alternativo di lingua italiana secondo il quale, nell’insegnamento, bisognava fare perno sulle parole, sul loro significato e sui concetti che sono dietro di esse. Il cui senso varia a seconda dei contesti in cui sono usate e a seconda di come esse vengono combinate tra di loro. E le parole sono proprio tutte le parole di cui è fatta la nostra lingua “le parole di tutte le materie diverse messe insieme” (Ferrini cit). Si poteva con più chiarezza e più semplicità di linguaggio esplicitare il concetto di trasversalità della lingua?
I pro e i contro si sprecavano. Le novità apparivano provocatorie perché Don Lorenzo le poteva esercitare in un tempo scolastico molto lungo e disteso che gli insegnanti non avevano, né aveva un programma da rispettare. Ma eravamo anche noi, chiusi nel nostro broncio di incompresi, a non avere la serenità per valutare la dirompenza di queste indicazioni sul versante dei processi di apprendimento.
Fu soprattutto quel “non bocciare” che scioccò e spaesò, quasi togliesse peso d’un tratto all’insegnare. Fu un grande equivoco che snaturò l’autentico significato di quello che ben presto sarebbe diventato uno slogan, una bandiera per molti usi. Il senso di quel “non bocciare” è tutto nella concreta pratica di scuola di Don Milani. Di una scuola accogliente, inclusiva, che sa valorizzare ciascuno e in cui “chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito, veniva accolto come voi accogliereste il primo della classe”, come dirà nella Lettera ad una professoressa. E più avanti aggiungerà che la scuola non può essere “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Questo significa non emarginare i più disagiati, ma trovare delle strade per metterli nelle condizioni di essere promossi. La strada principale è dare loro gli strumenti linguistici per farli andare avanti autonomamente. Infatti si fa loro un grave torto se li si promuove senza che a quelle promozioni corrisponda un adeguato corredo di conoscenze – competenze. Promozioni finte, pezzi di carta inutili che non servono a rendere i ragazzi cittadini sovrani responsabili. Buone solo per le statistiche.
In tanti salivano a Barbiana per vedere e soprattutto per capire questa esperienza di scuola alternativa, che non era però riproducibile. E non lo era neanche nelle intenzioni di Don Milani. Il quale non ha mai pensato di proporre un progetto di riforma della scuola pubblica. Semmai di sollecitare una riflessione per migliorarla, convinto che potesse migliorarsi. La sua scuola, però, di indicazioni ne forniva tante. Una per tutte: l’illuminante esempio di scrittura collettiva pianificata in una corrispondenza epistolare tra i suoi ragazzi e gli alunni del maestro M. Lodi. Sono esplicitate con chiarezza tutte le tappe della scrittura e le azioni concrete che ogni tappa prevede, perché “l’arte dello scrivere si insegna come ogni altr’arte” (Lettera a una professoressa).
La scuola di Barbiana è il frutto concreto, maturo e coerente di tutta l’azione pastorale del sacerdote Milani, di una sua convinzione profonda che sa trasformarsi in azione. Questa scuola che “ho esaltata -dirà in una lettera a don Barsotti- come mezzo di apostolato intrinsecamente sacro”, troverà nella Lettera ad una professoressa l’esplicitazione corale di un pensiero compiuto.

4) L’impatto sulla scuola
Niente poteva essere più come prima. La Lettera ebbe il merito di avviare un vivace dibattito intorno alla scuola e all’interno delle scuole. Riflessioni importanti c’erano state anche prima, ma erano state riflessioni per pochi addetti, per lo più a livello accademico. Ora la platea si allargava, investiva i docenti che si organizzavano in associazioni dove era messo in discussione il modello trasmissivo e si focalizzava l’attenzione sulla centralità dell’educazione linguistica. Qua e là sorgevano interessanti esperienze o di singoli docenti o di singole scuole che facevano da apripista. Lo Stato inizialmente (1971) rispose con l’istituzione del tempo pieno, come tempo in più per recuperare i dislivelli iniziali. Obiettivo raggiunto? Direi di no, ma esula da questa riflessione indagarne i motivi.
La scuola, negli ultimi decenni, è stata investita da una serie continua di provvedimenti e riforme che non le hanno dato respiro, senza uno straccio di indagine che ci dicesse se una data riforma aveva raggiunto gli obiettivi oppure no e perché. Tutti i Ministri che si sono succeduti hanno voluto lasciare purtroppo il loro imprinting.
Alcune scuole procedevano più saggiamente dei loro Ministri e implementavano una formazione dei docenti non più astratta e fuori contesto, ma strutturata, con seminari che anche da noi a Lecce hanno ospitato professori del calibro di De Mauro, Simone, Vertecchi, Calonghi, Brusa. Non mancavano tuttavia gli scontri fra docenti, fra chi convintamente affermava che certi alunni non erano adatti per studiare e perciò dovevano andare a lavorare e chi la pensava e agiva in maniera opposta. Ricordo con chiarezza quanto ci disse il Prof. Calonghi a proposito del deficit in lingua italiana degli studenti. Si fa a scaricabarile: ciascuno grado di scuola fa ricadere queste lacune sul grado immediatamente precedente, senza che nessuno avverta la responsabilità di attrezzarsi per recuperarle. Aggiunse che anche all’Università arrivavano studenti con notevoli deficit in italiano. Ebbene, l’Università in cui lui insegnava se ne faceva carico con dei corsi di recupero ad hoc, senza far finta di niente.
Sulla base della mia esperienza posso dire che è molto utile, tanto in prima elementare quanto in prima media, ma penso non faccia male neppure in prima superiore, dedicare almeno un paio di mesi iniziali solo alla lingua italiana da parte dei docenti delle diverse discipline, perché i ragazzi familiarizzino con i linguaggi specifici e venga poi facilitata la comprensione dei diversi testi.
L’eccesso di riforme, indicazioni, provvedimenti ha sfiancato e frastornato la scuola perché ha sottoposto i docenti a tante incombenze inutili, sottraendo tempo prezioso al loro compito essenziale che è quello di capire sostanzialmente il da farsi per i propri ragazzi e attrezzarsi di conseguenza . La scuola perciò va lasciata un po’ in pace per rigenerarsi dal di dentro. E’ infatti dalle singole scuole più avvertite che è passato un rinnovamento sostanziale della didattica e sono stati messi a punto gli strumenti che mancavano per dare uno scopo e una direzione di senso all’apprendimento. Era ormai sufficientemente chiaro che non si trattava più di trasmettere uno stock di conoscenze, ma di attivare, attraverso le conoscenze, reali processi di apprendimento, perché c’è una bella differenza tra quello che da sempre io chiamo “imparamento” e l’apprendimento.
Credo che l’autonomia scolastica abbia dato alle scuole e ai docenti la possibilità di organizzare la didattica in modo efficace, di scegliere le priorità, di recuperare e non più solo di certificare il deficit di possesso di parole che è poi un deficit culturale che non consente di formarsi una coscienza critica. Il perno di un rinnovamento vero della scuola per una formazione compiuta di tutti i ragazzi, al di là e oltre ogni riforma, restano gli insegnanti. In Esperienze pastorali Don Milani è lapidario: “I docenti non devono preoccuparsi di come fare per fare scuola, ma di come bisogna essere per fare scuola”.

5) E oggi?
Al netto delle mode, di tante novità formali e di tanti espedienti propagandati come straordinarie innovazioni, restano ancora nella fascia dell’obbligo talune storture indicate già dal Parroco di Barbiana. Accanto a tanto fumo negli occhi, ci sono scuole che lavorano con professionalità e competenza per spezzare il pane della conoscenza con chi ne ha più bisogno. A questo riguardo bisogna purtroppo dire che la situazione delle scuole in Italia è molto a macchia di leopardo.
Quello dell’apprendimento del corretto uso della lingua italiana resta un problema aperto se è vero che le prove scritte di tanti aspiranti magistrati e non solo, vengono falcidiate perché piene di gravi strafalcioni. Recentemente un appello del mondo accademico alla scuola ha segnalato questa emergenza.
L’altra sfida vera è come riportare in classe circa il 14% dei ragazzi dispersi, perduti alla scuola, che al Sud assume una dimensione più consistente. V. Roghi, nel suo “La lettera sovversiva”avverte che la scuola perde i ragazzi per strada perché “ieri come oggi non sa cogliere in questo uno degli aspetti di ingiustizia strutturale del nostro sistema educativo”.
Che fare? Si propone più tempo pieno, più laboratori, più personalizzazione della didattica. Dipende molto da cosa viene riempito il tempo in più. Se viene proposta solo la custodia dei ragazzi, o attività senza costrutto o il doposcuola per fare compiti, direi che tutto questo lascia il tempo che trova. Se si tratta invece dell’offerta di un tempo più disteso in cui gli interventi vengono concentrati per motivare e migliorare l’apprendimento, il discorso cambia.
La scuola deve mettercela tutta, ma temo che da sola non possa farcela, dopo che è saltata l’alleanza con le famiglie che si sentono deresponsabilizzate rispetto all’educazione dei propri figli perché “ci deve pensare la scuola”. E’ un problema piuttosto recente quello della non-collaborazione dei genitori o dei genitori contro.
In un certo senso è venuto meno anche il supporto delle parrocchie, che i ragazzi non frequentano più dopo le cresime. Penso che bisognerebbe andare a cercarli questi ragazzi lontani e disagiati per parlare a lungo con loro e capire le loro difficoltà. Probabilmente, per dirla con Don Milani, avrebbero bisogno di un surplus d’amore. Questi adolescenti costituiscono per tutti noi una assoluta priorità, difficile, scomoda, impegnativa, che però non può essere ignorata. Non ci sono soluzioni facili o ricette risolutive, ma sta a noi non stancarci di provare. Fuori la scuola per loro c’è il vuoto che tanti riempiono organizzandosi in bande con i coetanei per compiere azioni che ci appaiono abnormi e incomprensibili nella loro gratuità.
Pare perciò indispensabile ed urgente trovare un modo per fare rete fra le scuole e le parrocchie. Entrambe infatti non possono arrendersi all’idea che la strada vince perché è più forte di loro.